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Il Counseling Breve



Il Counseling Breve orientato all’azione

1.1 Il Counseling come relazione d’aiuto

Il counseling è una pratica di consulenza psicologica, proveniente dall’insegnamento di Carl Rogers, psicologo statunitense, noto per la terapia non direttiva, centrata sul cliente che fu il primo ad introdurre il termine nel 1951. Sempre più diffuso negli ultimi anni, anche in Italia, il counseling è fondato su un approccio clinico, orientato al dialogo interattivo e partecipante, di tipo assertivo, tra un terapeuta-consulente e il suo paziente-cliente. Le strategie della consulenza psicologica superano la tradizionale analisi psicoanalitica freudiana, basata sul racconto emotivo dei vissuti e del passato, nelle sue espressioni patologiche e traumatiche, e vanno ad affrontare direttamente il cuore dei problemi, per tentare una loro risoluzione attraverso il problem solving e l’orientamento all’azione e al successo. Spesso una terapia analitica dell’inconscio richiede anni di trattamento e di indagine per giungere alla risoluzione delle questioni cruciali che impediscono al paziente di vivere un’esistenza serena e dignitosa nel presente. Vi sono, tuttavia, eventi importanti che non possono aspettare, perché giocando sui tempi lunghi finirebbero comunque per approdare ad un insuccesso. Il counseling viene preferito all’analisi psicoanalitica in tutte quelle situazioni che richiedono un intervento tempestivo, per la loro risoluzione. O anche nel caso di clienti che non vogliono esporsi emotivamente, raccontando troppo di se stessi e della loro vita. I tempi ristretti della terapia fondata sull’approccio orientato all'azione consentono al terapeuta counselor di risolvere entro lo spazio contenuto tra le cinque e le dieci sedute. Ma nel caso del counseling cosiddetto “breve” addirittura la soluzione può essere rinvenuta dopo qualche seduta, da una a tre. In alcune situazioni, il cliente trova la soluzione anche dopo una sola seduta, che gli permette di riflettere e di decidersi per l’azione più corretta da intraprendere. Una buona regola da rispettare, difatti, è quella della libertà del cliente, che decide responsabilmente, e in piena coscienza, quando dover intraprendere un percorso di counseling, e quando dover abbandonare il terapeuta. Quest’ultimo, che non è necessariamente un medico, ma che può essere anche un laureato in psicologia, in filosofia, o possedere un qualunque titolo di studio in scienze umane, o in altro ambito, che ha affrontato un percorso di specializzazione di tre anni di studio, deve avere come obiettivo quello di rendere il più velocemente possibile indipendente dal suo sostegno il paziente stesso, che dovrà camminare sulle sue gambe, fidandosi di sé. Uno degli assunti fondamentali del counseling è che il cliente sia esperto della sua vita, e che sappia decidere autonomamente ciò che è meglio. Per agevolare questo percorso di affrancamento, il counselor deve rispettare la persona del cliente, sostenendolo senza interferire nelle sue scelte, e lasciandolo libero di fare qualcosa, quando abbia deciso come farlo. Il cliente ha, difatti, una sua dignità di persona, che va tutelata sopra ogni altra cosa. Il problema nasce, spesso, dalla coazione a ripetere azioni che portano all’insuccesso e che, generalmente, si pongono in essere adoperando cliché comportamentali ben precisi, senza avere la consapevolezza di farlo. Il counselor ha, per questo motivo, il compito di far emergere questa incongruenza, spezzando il circolo vizioso fallimentare, e spingendo il cliente a “fare qualcosa di diverso e di efficace” per orientarsi al successo. L’approccio di counseling più praticato, anche in Italia, è quello della scuola di Palo Alto, e di Paul Watzlawick, autore insieme a Gregory Bateson dei cinque assiomi della comunicazione. I cinque assiomi della comunicazione della Scuola di Palo Alto, elaborati nel 1967, sono: non si può non comunicare; esiste una metacomunicazione che distingue contenuto e relazione; la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura della sequenza di eventi; in una comunicazione esistono i livelli digitale e analogico, di modo che la comunicazione passa soprattutto per i messaggi non verbali che vengono trasmessi; in una comunicazione l’interazione è complementare o simmetrica. Il più importante assioma della comunicazione è senz’altro quello che recita “non si può non comunicare”, facendo intendere che anche il silenzio è una forma di comunicazione, che va rispettata, essendo la più difficile da praticare e da sostenere. I counselor preparati, e con esperienza, sanno infatti che l’ascolto silenzioso delle problematiche del cliente è fondamentale per il successo della terapia. Soprattutto, bisogna cercare di non essere troppo direttivi, evitando ogni forma di giudizio, sui fatti e sulle persone. Naturalmente anche la capacità di interrompere, nel caso si assista ad un monologo, fa parte della competenza specialistica del professionista, che non deve necessariamente interloquire verbalmente, per farlo, ma può utilizzare una tecnica non verbale, come un battito d’occhi, o una mano alzata, ad indicare di avere qualche cosa da dire, o da eccepire, interrompendo il flusso dei pensieri e delle parole del suo interlocutore. Capita spesso, nelle sedute di counseling, di assistere a veri e propri soliloqui, che procedono in maniera scomposta, rischiando di prendere più direzioni contemporaneamente. La capacità del counselor deve, in questi casi, riguardare l’abilità a riportare la conversazione entro i limiti giusti e definiti della seduta, senza sfociare nelle dinamiche psicoanalitiche, sempre pronte ad affacciarsi all’orizzonte, quando vengono toccati i nervi emotivi ed affettivi della vita del cliente. Così come vanno gestite le emozioni e le parole disordinate e scomposte che il paziente sensibilmente turbato pronuncia, vanno rispettate altrettanto le pause e i silenzi eventuali, che possono ricondurre ad un bisogno di riflessione, o anche ad un momentaneo rifiuto della comunicazione. Chi cerca conforto in una seduta di counseling, difatti, non ha un vissuto patologico di tipo psichico, e non deve agire le dinamiche della lettura e dello studio del suo passato esistenziale. Se poi, nel corso degli incontri, si dovessero palesare altre difficoltà, sarà il counselor stesso ad orientare il cliente verso una terapia psicoanalitica, con uno specialista psicologo o psichiatra. Non è un caso che l’interlocutore del counselor venga definito “cliente” piuttosto che “paziente”. Egli è, difatti, inteso come una persona che cerca sostegno in un momento di difficoltà della sua vita. Altra cosa è la terapia clinica di tipo psicologico e/o psichiatrico. Il counseling dunque, piuttosto che una terapia, è una relazione di aiuto, e come tale si fonda sulla comunicazione, così come ce la prospettano gli studiosi di Palo Alto. Saper comunicare correttamente è già un primo passo, dunque, verso la possibilità di comprensione reciproca, e di corretta impostazione della interazione, che è comunque fondata sul dialogo.

1.2 I quattro passi del Counseling e il Counseling breve

Il Counseling, secondo questo approccio, è costituito da quattro passi: definizione del problema; eccezioni e risorse; progettazione del futuro e strategie di Walt Disney; azione. Il counseling breve, proposto da John Littrell nel suo libro intitolato Il Counseling Breve in Azione, secondo il modello di Palo Alto, è orientato alla soluzione e al successo operativo, ed è focalizzato sugli aspetti positivi e sulle risorse che il cliente può mettere in campo, per la progettazione del futuro e delle azioni utili a risolvere le questioni di interesse. Nel counseling breve i noti quattro passi possono ridursi fino a due, passando immediatamente dalla definizione del problema all’analisi delle risorse potenziali da mettere in campo per risolvere la situazione problematica. Nella sua forma tradizionale, il terapeuta deve anzitutto comprendere il problema; poi fare leva sulle eccezioni e sulle risorse del cliente; infine individuare le possibili soluzioni, puntando all’esperienza del cliente stesso, e mettendo in atto la strategia del sognatore, del realista, e del critico; in ultimo egli deve progettare, insieme al cliente, possibili interventi futuri, e azioni concrete, che possano essere risolutive delle situazioni problematiche portate all’attenzione del terapeuta. Nel progettare insieme il futuro, molto importante è il passaggio relativo alla strategia di Walt Disney, in cui si chiede al paziente di immaginare come potrebbe essere la sua vita se avesse già risolto il problema, proponendogli anche la postura e l’atteggiamento comportamentale che assumerebbe in tal caso. Questo primo passo è relativo al sognatore, e al cosiddetto “miracolo”, sia perché il paziente si vede già proiettato nel suo futuro, così come egli lo desidera e vuole, ma anche perché, ovviamente, egli immagina che sia avvenuto un miracolo esistenziale, nella sua vita, che abbia fatto d’un tratto scomparire il problema, portandolo a vivere nella condizione desiderata. Il secondo passo della strategia di Walt Disney è quello del realista. Se non si vuole incorrere nell’insuccesso, bisogna aspirare a progetti realizzabili che siano anche possibili nel contesto in cui ci si trova a vivere. Il realismo, insieme alla capacità di sognare e di immaginare un futuro possibile, è utile a non scontrarsi con una realtà nella quale i desideri si dovessero rivelare soltanto dei progetti utopici. Perché, in questo caso, l’insuccesso sarebbe prevedibile in partenza, e non deriverebbe da un difetto di progettazione o di azione, quanto da un’effettiva mancanza di adesione al principio di realtà, nel valutare quale sia l’ambiente nel quale ci si deve poter muovere per realizzare gli obiettivi proposti. Infine, l’ultimo passo di questa strategia, è quello del critico. Se si vuole ottenere il successo operativo, bisogna saper valutare i punti di forza e di debolezza dei progetti che si intende mettere in atto. L’insuccesso, difatti, può derivare anche da un’erronea valutazione dei rischi dell’azione, o dalla mancata osservazione dei pregi e dei difetti della scelta operata.

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